Icona della Trasfigurazione

L’icona non è un quadro sacro, o un suppellettile di arredo, ma è un sacramentale, un luogo teologico, un luogo taumaturgico di guarigione. L’icona non si può considerare completa fino a quando non è consacrata. È a tutti gli effetti arte sacra. Solitamente non viene appesa al muro, ma appoggiata su uno scranno per poter essere baciata, esposta, ed è oggetto di venerazione. L’icona è il luogo in cui è possibile incontra il contenuto, è una pagina della Scrittura e deve corrispondere fedelmente alla Parola o alla storia del Santo rappresentato. 

La festa della Trasfigurazione viene introdotta nel VI secolo ed è strettamente legata all’Esaltazione della Croce è quindi da considerare come evento prefigurativo della croce e della risurrezione. Nel mondo orientale è anche conosciuta come Icona della Conoscenza perché solitamente era il primo tema che si affidava agli iconografi meno esperti. Chi iniziava a cimentarsi con le icone iniziava con il soggetto della Trasfigurazione per poter ricevere da esso la luce del Tabor, la luce della conoscenza, la possibilità di fare un’esperienza di fede profonda e trasfigurante. Icona che pone di fronte al tema della bellezza perché permette di contemplare la gloria. 

Ti sei rivelato ai tuoi Signore secondo le loro possibilità. I tuoi hanno contemplato la tua gloria affinché quando ti avessero visto crocifisso avessero creduto alla volontaria tua passione

San Gregorio di Nissa

Questa icona ci svela la presenza misteriosa e salvifica di Cristo in mezzo alla Chiesa radunata dalla liturgia per celebrare i sacri misteri. Proprio nelle celebrazioni si compie il miracolo del vedere, attraverso gli occhi della fede, la presenza reale del Figlio di Dio Salvatore. Ogni volta che celebriamo i nostri occhi si aprono e intuiscono nella presenza della Parola e dell’Eucaristia, la sua Presenza. Ogni volta che celebriamo saliamo sul monte con Gesù e gustiamo una trasfigurazione. 

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Tre gradi di conoscenza

La manifestazione gloriosa di Cristo

Lo splendore glorioso di Gesù trasfigurato emerge da subito con forza e rappresenta l’incontro primordiale che ciascuno di noi può aver fatto con Lui. È il primo innamoramento dato dal fascino della sua luce. Gesù ci attira a sé e ciò che rimane è l’impressione di averlo conosciuto pienamente, in profondità. Il suo volto bello (kalòn) è anche buono e vero. Significa aver fatto l’esperienza viva di Gesù, essere attratti dalla sua presenza, l’essere testimoni di un incontro personale. 

La presenza della nube

I cerchi concentrici rimandano al mistero di Dio: la sua presenza misteriosa nella nube. Si inizia a prendere coscienza che l’incontro con Gesù non può essere contenuto in schemi umani, ma che Dio è il Totalmente Altro. Perdiamo le nostre certezze, le sicurezze, perché inizia il cammino di maturazione della fede; perdiamo la nostra conoscenza sensibile in favore di una ricerca a partire dall’esperienza di una sproporzione tra ciò che è umano e ciò che è divino. Conoscere Dio è un dono, non una conquista. Gesù ci viene rivelato dal Padre. La nube ci chiede di vegliare, vigilare, aprire gli occhi della fede, alzare lo sguardo per poter contemplare. Si tratta di vedere la realtà con una presenza nello sguardo. Guardare con gli occhi del cuore per scorgere il mistero nascosto in tutte le cose. 

Il cerchio delle tenebre

Arriva poi il momento di fare i conti con le nostre tenebre, con l’oscurità che ci abita. È ciò che rappresenta il cerchio nero sullo sfondo, proprio dietro la luce splendente delle vesti di Gesù. Si tratta di far emergere il contrasto esistente in ogni uomo e in ogni realtà tra luce e tenebra, tra peccato e perdono, tra umanità e grazia. Si tratta di fare l’esperienza del silenzio di Dio, del suo apparente abbandono quando non riusciamo più a sperimentarlo con i sensi. Credere che Dio è lì dove sei tu, anche nell’abisso del tuo dolore e della tua sofferenza. Fidarsi al di là dei sensi, al di là della ragione, al di là di te stesso. Il buio che scopriamo in noi ci rende bisognosi, mendicanti, ci mette in cammino, in ricerca, nella condizione di chiedere la sua misericordia. 

Il monte

Gesù si rivela con Elia e Mosè, i monti della Legge e della Profezia, i doni della Parola e del Pane che vengono ricevuti e donati. Rappresentano la montagna della Scrittura nella sua interezza. Dalla Parola scaturisce il fiume di acqua viva che è Cristo, la sorgente che porta vita, l’acqua che disseta per l’eternità. Riceviamo per poter donare.

Sul monte è presente la vegetazione tipica delle Marche, che sta ad indicare l’unità della Chiesa marchigiana nel Seminario regionale.

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I discepoli

sono Pietro, Giovanni e Giacomo, gli stessi che saranno presenti poi nel Getsèmani, come ad indicare il punto di maggiore gloria e il punto di maggior fatica. Sono collocati ai piedi del monte, sul piano inferiore dell’umano, sensibile e mondano. Il colore nero rappresenta infatti la terra intrisa di peccato e fragilità. Sono chiaramente sconvolti, turbati, caduti a terra, sconvolti. C’è un evidente disordine che contrasta con la fissità ordinata delle figure del piano superiore, collocate nel cielo del paradiso indicato dal color oro.

I personaggi

Dunque tre sono i personaggi nel piano superiore: Elia, Gesù e Mosè;
tre nel piano inferiore: Pietro, Giovanni e Giacomo;
tre sono i cerchi della nube;
tre i monti della rivelazione;
tre i raggi di luce splendente irradiati dal Gesù trasfigurato.

Ma allo stesso tempo potremmo dire anche che sono sintetizzati in unità:

un solo dialogo tra Elia, Gesù e Mosè;
un solo discepolato, quello di Pietro, Giovanni e Giacomo;
una sola nube;
un solo monte, il Tabor;
una sola luce irradiata. 

Gesù

Al centro della scena, più grande rispetto agli altri personaggi, c’è Gesù trasfigurato, con in mano il rotolo del Vangelo, che illumina e dona luce a tutta la scena. Gesù viene ad illuminare i passi, i dubbi, le sofferenze, i dolori, i peccati dell’uomo. La luce che emana è prefigurazione della Risurrezione. Il volto di Gesù rappresenta il volto del vero uomo, l’uomo pienamente compiuto.

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Elia

L’anziano raffigurato con la lunga barba bianca, alla sinistra di Gesù, è il profeta Elia. Rivolto verso Gesù, in dialogo e in comunione con lui, porta in mano il pane, che rappresenta l’Eucaristia. Il profeta sta indicando l’oggetto della profezia, quella presenza di Dio che ha sperimentato, non nel fragore del terremoto, ma nella leggerezza di un vento. Elia rappresenta i vivi.

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Mosè

Il giovane alla destra di Gesù è Mosè e rappresenta i morti. Mosè conserva la sua giovinezza perché i suoi occhi hanno visto Dio nella potenza di un rogo in fiamme che non si consuma. Dt 34,7: “Mosè aveva centoventi anni quando morì; gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno”. Le sue mani sono velate in segno di adorazione e rispetto e porge a Gesù la Torah, la Legge.

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Pietro

Pietro ha una mano alzata verso il Maestro quasi ad indicare la via, la verità e la vita. La funzione di Pietro è sempre quella di indicare il Signore presente nel mondo. Sta chiedendo a Gesù di poter piantare tre tende. Pretende di poter contenere il mistero, di poter racchiudere la gloria in una tenda umana.

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Giovanni

Giovanni è ai piedi di Gesù, prefigurazione della sua passione. Sarà infatti Giovanni l’unico discepolo a rimanere con Gesù fin sotto la croce. L’atteggiamento ricorda quello dell’ultima cena, quando si chinò sul petto del maestro, ma anche la peccatrice chinata ai piedi di Gesù. Non a caso Giovanni porta in mano un vasetto di profumo che sta versando su di noi, sulla Chiesa.

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Giacomo

Giacomo ha l’atteggiamento di Giuseppe, è preda di un timore reverenziale rappresentato dalla mano alzata verso il volto, come se volesse custodire il silenzio. Allo stesso tempo sembra guardare non solo verso Gesù, ma anche verso Pietro. Rappresenta ogni cristiano che per arrivare a Cristo ha bisogno di sperimentare l’incontro con testimoni adulti nella fede.

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