Sermig: Fraternità della Speranza

di: Jacopo Maglioni

20 Mar 2020

Arrivando a Torino, in una melanconica serata di settembre, non avevo idea di quello che mi stava aspettando a qualche chilometro di distanza. Sceso dal treno a Porta Nuova, andavo infatti verso quello che Luca Nicolotti (ergastolano delle Brigate Rosse) chiama «Un monastero nel cuore della frontiera che spacca Torino», infondo una piazza che sa di casa e una profezia che allarga il cuore. Per arrivarci, all’Arsenale, si attraversa tutto il centro di Torino, i corsi principali e ci si imbatte nelle solenni facciate sabaude; sento ancora la strana sensazione quando, attraversata Porta Palazzo, lasciandomi poco dietro la cattedrale, entravo nel quartiere più multietnico e povero di tutta Torino. Passando dalla grande porta di ingresso dell’Arsenale della Pace, sempre aperta, scoprivo una miniera grandissima e nuova che si dipanava nelle grandi sale, nei corridoi e nelle cappelle, un tempo fabbrica di armi, oggi officina di Pace. In questa miniera sin dai primi giorni, mentre mi aggiravo per l’enorme struttura ancora spaesato, mi veniva chiesto di capire dove scavare, decidere quindi in quale ambito pratico, umano e spirituale spendere quei giorni. Ricordo oggi come, nel ritmo costante di lavoro, servizio e preghiera, si è evidenziato subito per me un elemento sopra gli altri, qualcosa che per me dava valore alle attività e alla fatica, dava un senso anche all’Arsenale: le storie che lo vivono. Infondo credo che il Sermig e la Fraternità della Speranza non siano altro che un incrocio di storie, di appuntamenti e di incontri, un pugno di giovani innamorati che cambiando il loro cuore cambiano il posto che vivono. Storie quindi e Storie sacre, dove Dio passa, Maria si sente a casa, che i pavimenti dell’arsenale raccontano, come i volti di chi lì ha detto il suo “Si”. In quei giorni quante piccole storie ho visto e ho sentito, quante persone hanno bussato alle porte del Sermig e quante sono partite: dai simpatici signori con cui lavavamo i pavimenti, che in arsenale scontano la loro pena e ritrovano la loro dignità, come i tantissimi ragazzi che passano dall’arsenale per fare una esperienza, per i campi o alcuni anche per sé stessi, per darsi un tempo di riflessione nel servizio a qualcuno. Porto ancora nel cuore ragazzi e ragazze con cui ho condiviso la vita e che come me cercavano il luogo del loro cuore, sia con una domanda vocazionale forte, vera e in verifica sia con una domanda più esistenziale, sulla propria vita e su un Dio. Tutte queste storie risplendono ancora oggi del passaggio di Dio, come se il Sermig sia, non il fine di un servizio filantropico, ma il luogo e il tempo del Padre, scenografia per azioni che cambiano il cuore. Perché tra un lavoro e l’altro Lui passa e passa per tutti, non di rado mi sono sentito incontrato, visitato nell’uomo della porta accanto che non riesce a intuire cosa fare della sua vita, nel ragazzo di strada che vuole imparare l’italiano per farsi capire e rinuncia alle ore di lavoro. Passa nei tanti volontari che spendono lì ore del loro tempo libero, cerando non tanto l’efficienza quanto lo stile del Sermig, nel vecchio falegname musulmano che ti aiuta a fare il presepe vicino alla sua stanza (confessandoti la sua fede solidissima circa il parto verginale di Maria) e nel migrante giovanissimo, in lacrime per la morte del padre. Centro di tutta questa vita è l’amore, un amore grande per Gesù, la capacità della Fraternità e di quelli che li passano, lavorano, ripartono, di stare davanti a Lui e di saperlo riconoscere nei segni dei tempi come nell’impegno quotidiano, con una bella vita di preghiera, l’ascolto e i sacramenti. Quante esperienze ho visto, esperienze di vita, si società e di chiesa, esperienze che sono anche esperimenti, che sono abbandonate alla Speranza nella Carità. Quello che ho descritto sprecando qualche parola, infondo mi ha lasciato una convinzione, che la Carità è semplice, umile e piccola, quasi banale, ma ha una forza inaudita nella sua debolezza. Come Ernesto, lavoratore di una Torino per bene che si consuma oggi nelle storie sbagliate, convinto che Dio scrive dritto anche nelle righe storte. Vi lascio una frase, come riassunto, quella detta da un ragazzo, straniero, in lacrime per la morte del padre “voi non siete come gli altri, voi mi volete bene!”, perché la novità di questa vita credo sia questo, farsi riconoscere perché si ama.