Educare: l’orizzonte e la strada

di: Elisa Cesaretti

22 Feb 2022
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La progettualità e l’imprevisto davanti ad un caffè

È possibile parlare di pedagogia davanti ad un caffè? Mi sono immaginata la scena: entro in questa pasticceria un po’ alternativa, luci calde, odore fragrante di brioche appena sfornate. Dopo il controllo del Green pass (che nuova normalità sia!) mi siedo ad aspettarti e mentre leggo qualche titolo del quotidiano sul tavolo finalmente arrivi tu, caro lettore.

Ordiniamo due caffè e dei biscottini perché stiamo per affrontare un discorso intenso e a cuore aperto, che sa un po’ di educazione e un po’ di vita vissuta (che in fondo non è proprio di questo che tratta?), poi rompo il silenzio imbarazzato con un’affermazione che vuole essere un po’ accattivante e un po’ riflessiva: “ci pensi mai che solo l’essere umano ha la capacità di fare progetti?” Ti lascio un attimo per metabolizzare il concetto, tanto il tempo c’è perché il caffè non è ancora arrivato. Pensaci bene, questo
è un dato di fatto: riesci a nominare un’altra specie animale che intenzionalmente può decidere del suo destino? Ovviamente sono aperta anche a venire confutata, ci mancherebbe, ma dopo qualche ricerca sull’argomento è emerso che nessun altro animale riesce a modellare il futuro a suo piacimento. Nemmeno le formiche, le api o i castori nella costruzione della loro dimora, a prescindere che sia un formicaio, un alveare o una diga, sebbene siano molto efficienti nel farlo. Nemmeno i salmoni, i gabbiani, le rondini o gli elefanti, che percorrono per secoli lo stesso itinerario e lo trasmettono dai più
anziani ai più giovani in un ciclo infinito. Nemmeno i primati, i mammiferi più evoluti, che
hanno sviluppato una sorta di proto-educazione nei confronti dei loro cuccioli, che
insegnano loro a difendersi, a sopravvivere, a cacciare, non “progettano” di farlo. Accade
e basta: sebbene il dibattito scientifico – in particolare nell’ambito dell’etologia cognitiva
che studia la mente animale – si stia interrogando su tutta la faccenda, la maggior parte
degli studiosi crede che nemmeno in questi casi si possa parlare di intenzionalità, di
volontà, ma di istinto.
Se ci continui a pensare – oh ecco, il caffè è arrivato, per fortuna perché con tutte queste
divagazioni mi si è seccata la gola – una tra le prime domande che ci vengono poste da
piccoli è: “Cosa vuoi fare da grande?” Mi viene da sorridere: lavorando con bambini tutti i
giorni ho sentito più o meno di tutto, dai cliché (calciatore-astronauta) ai sogni più veri e
sinceri (veterinaria-insegnante…). Diciamo che “progettare” fa parte di noi, da sempre.
Che cosa significa però concretamente? Mentre si scioglie lo zucchero sparo la
definizione teorica che mi è stata insegnata all’Università:

“La progettazione è una pratica razionale, situata e riflessiva che

permette di superare il contingente e modificare l’esistente”

Forte vero? Ok, dai, la spiego in parole povere, tu però intanto bevi il tuo caffè sennò si
fredda. Usando un linguaggio più semplice direi che essa è un fare che, essendo stato
pensato in anticipo e preparato volontariamente proprio per e grazie alla realtà che sto
vivendo, permette di prevedere e affrontare l’imprevisto per generare un cambiamento.
Scusa, adesso sorseggio un attimo il mio di caffè. Ebbene sì, hai colto nel segno: il
progetto è intrinsecamente connesso con l’imprevisto. A questo proposito mi viene in
mente la 1ª legge della Progettazione, che è basata sulla famosa legge di Murphy:

“Se qualcosa può andar male, lo farà”

No, non guardarmi così, lo so che sembra una visione estremamente pessimista di tutta
la faccenda, ma lascia che la espliciti meglio: se ci sono due o più modi di fare una cosa e
uno di essi può condurre ad un problema o ad un errore, allora prima o poi esso si
verificherà. In questa prospettiva di conseguenza progettare significa anticipare e
prevedere le condizioni all’interno delle quali si andrà ad operare in modo da minimizzare
la possibilità che si verifichi un errore o un imprevisto o comunque in modo da limitare i
danni nell’eventualità che esso intervenga. Ti ho perso, lo vedo dagli occhi. Mangia un
biscottino, però quello con le gocce di cioccolato lascialo a me! “Che senso ha progettare
se tanto qualcosa andrà storto?” Verrebbe quasi da dire che hai ragione, che forse a
questo punto è inutile farlo se tanto siamo certi (o quasi) che l’imprevisto prima o poi
arriverà. Ma vedi, caro amico, è proprio questo il punto: ciò che è improbabile, singolare,
accidentale, lo è sempre in funzione di un sistema di riferimento. O, più semplicemente,
non ci sarebbe deviazione senza una strada da cui deviare.

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Mi viene da dire che allora la strategia vincente è quella di sfruttare l’imprevisto come
mezzo per riadattare in azione il mio fare, che sia in ambito educativo o nella mia vita di
tutti i giorni. Ecco dove entriamo in gioco noi, noi che con il nostro essere unico ed
irripetibile e il nostro fare concretizziamo il nostro progetto. La conseguenza non può
essere che una: un approccio, per essere educativo (perché di questo stiamo parlando, ricordi? Di educazione e di pedagogia, anche se siamo in questa meravigliosa pasticceria dai biscotti squisiti) non può non essere intenzionale e quindi progettuale, con una finalità precisa, ovvero quella di generare un cambiamento. Entrando in metafora – forse non lo sai, ma adoro le metafore perché rendono afferrabili concetti che a volte possono
sembrare lontani e staccati da noi – possiamo paragonare il progetto ad un cammino.
Davanti a te l’orizzonte, la meta, la destinazione, la finalità da raggiungere, ma poi la
strada la scegli tu sulla base di criteri diversi: i tuoi compagni di viaggio, il tempo a
disposizione, il tuo “essere” in quel momento… sapendo che ciascun tragitto porterà a
visitare certi luoghi e a lasciarne indietro altri. L’importante, caro mio, è ricordare una
cosa: non c’è una strada giusta o sbagliata a priori, ma c’è un tragitto più giusto o più
sbagliato in base agli obiettivi che ti poni. Sai perché si parla di progetto e non di
programma? Perché il programma è statico, rigido, definito; non prevede deviazioni. Ciò
che è diverso è “altro”, è sbagliato. Il progetto, invece, è per sua definizione aperto, in
movimento, in trasformazione, è adattabile a te che lo immagini; parla di te e abbraccia
l’errore come possibilità di tornare indietro, di crescere e di cambiare. Per capire bene la
differenza pensa a Dio: Lui non ha preparato un programma per te, né per ciascuno di
noi, con una scaletta delle cose da fare. Lui ha un progetto, ci dà un orizzonte, una meta,
una destinazione, ovvero la felicità, e ci dice che sta a noi scegliere come raggiungerla.
Anche nelle nostre realtà, nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie, credo che sia
importante imparare a progettare. Il che non vuol dire avere tutto sotto controllo, ma in
definitiva scegliere una strada e seguirla. Perché non possiamo farne a meno.
Allora, ti è piaciuto questo caffè?