Sinodalità: camminare insieme

di: Don Federico Rango

17 Nov 2021
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Ci sono parole nell’ambito della vita della Chiesa che, se diventano virali, risultano talmente sature da togliere ossigeno alle realtà stesse che vogliono presentare. È il rischio che oggi corre la parola Sinodalità, la quale si è imposta insieme al processo spirituale che la sostiene, il discernimento, come una dei capisaldi del pensare e parlare del pontificato di Francesco. Questa saturazione fra coloro che sono «dentro» ha un effetto devastante su coloro che «sono fuori» dalla Chiesa. Avrete notato anche voi che se in una delle nostre riunioni parrocchiali o diocesane non si può più formulare una frase senza almeno inserirci l’avverbio sinodalmente o l’aggettivo sinodale fuori da queste nostre stesse riunioni, e senza andare troppo lontani, si ignora completamente l’esistenza di questo termine. Il motivo è presto detto: è un’espressione apparentemente nuova, si direbbe inedita, e arriva in un contesto in cui, ormai, a pochi importa davvero ciò che la Chiesa pensa, dice e vive. Ma questo è proprio il tempo più favorevole per parlarne, e per farlo ci è chiesto il più possibile di essere chiari, di parlare una lingua che sia il meno ecclesiale possibile.

Dire sinodalità oggi può essere paragonato all’esperienza di trovare un vecchio album di foto in soffitta e, fra la polvere e qualche foglio spiegazzato, rivedere il proprio viso anni prima, o ancora l’esperienza di indossare un abito di molti anni fa e che ancora ci sta bene: certo vedremo che siamo cambiati e che alcune fantasie di tessuto ci sembra impossibile averle indossate davvero, ma in fin dei conti siamo sempre noi, e anzi magari ci rendiamo conto che la storia che contiene quella immagine dice tanta verità proprio su di noi, forse più di quanta nel presente riusciamo a vedere. La sinodalità è l’atteggiamento, lo stile come si preferisce dire, che ha caratterizzato la comunità cristiana delle origini e dei primi secoli: quando ancora non erano definiti con precisione i ministeri, quando ancora i concili non avevano chiarito tutti i nuclei della nostra fede, i cristiani, semplicemente, vivevano insieme. Non è il proposito di una comune o di una grande convivenza, ma la spiazzante realtà che senza una comunità concretamente individuabile, quello che chiameremmo in gergo “un corpo”, non era possibile arrivare a riporre la propria fede nel Signore Gesù morto e risorto, né tantomeno permettergli di determinare scelte per la propria vita.

Sinodalità, che è camminare insieme, e ciò che da sempre la Chiesa vive: nel modo di celebrare i sacramenti, nell’organizzazione pratica della missione su un territorio, nel servizio agli ultimi, nelle scelte della fede, nel modo con cui si proponeva istituzionalmente nel mondo. È evidente: tanto per l’album di foto, quanto per questo termine, che il passare del tempo ha depositato polvere e modificato la percezione delle cose: le forme del potere che la Chiesa ha ritenuto opportuno mettere in piedi, la gestione delle relazioni fra i suoi vari membri nei diversi stati di vita, le pagine controverse di storia che sono state scritte, hanno fatto sì che oggi questa parola suoni così nuova ai nostri orecchi. La vera novità, però, se vogliamo proprio trovarla, è individuabile solo nel passaggio da un’idea di Chiesa che è “da sempre” ad uno stile, ad una forma nuova di struttura, ad un nuovo modus vivendi della Chiesa nella storia e nel mondo. È in questa tensione fra la novità e il “da sempre” che si condensa, oggi, il tempo favorevole in cui un Sinodo della Chiesa Universale mette a tema la sinodalità, nelle sue espressioni di comunione, partecipazione e missione. E in questo preciso contesto la Chiesa Italiana avvia un cammino sinodale che le chiederà lunghi tempi di riflessone, sogni e un fecondo ripensamento.

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Ora certo ci chiediamo: tutto ciò cosa comporterà in concreto? Se daremo corpo a questo passaggio avremo l’occasione di fare memoria di come il protagonista è lo Spirito Santo, e di conseguenza saremo chiamati ad impostare le nostre scelte a partire da questa Presenza, inserendo come elementi imprescindibili, nei cammini di fede che proponiamo, l’educazione alla vita secondo lo Spirito e al discernimento in ogni nostra realtà. Il passaggio a questa forma provocherà inevitabilmente un processo che riporrà al centro il popolo di Dio tutto intero, e non una sola delle sue componenti, chiedendo a ciascuno di vivere fedeli alla propria vocazione battesimale e sentendosi tutti parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Sarà occasione, allora, di riconoscere e valorizzare tutti i carismi e i doni che lo Spirito suscita. È il tempo opportuno per rigenerare i rapporti fra le varie realtà e le varie membra del Corpo di Cristo, ormai esauste dal clericalismo, dal laicismo e da polarizzazioni ideologiche mondane. Questo stile potrà di conseguenza condurci ad esaminare come nella Chiesa vengono gestiti autorità e potere, revisionando se necessario le strutture, convertendoci da quanto si allontana dall’ideale evangelico, e avvivando nuove prassi, ad ogni livello. Una Chiesa che vive sinodalmente è una Chiesa dell’ascolto: sarà allora un tempo favorevole per ravvivare un dialogo non solo fra i vari membri, ma anche con il mondo che siamo chiamati a servire, scegliendo vie di riconciliazione e guarigione, riallacciando legami con le realtà umane e sociali, in un clima di fraternità che anticipi nel presente il compimento verso cui Dio guida la sua Sposa.          

Come accade sempre all’inizio di un nuovo cammino, anche in questo caso non possiamo nasconderci le fatiche: c’è tanta disillusione, paura di un ennesimo lungo percorso che finirà con il consumare le energie rimaste, resistenze che vengono dal sospetto di ideologizzazione e strumentalizzazione. Tutte cose legittime, ma che dovremmo saper mettere a tacere ascoltando il «non temere» di Dio che risuona come in ogni racconto di vocazione e che raggiunge, stavolta, non un singolo a favore di tutti, ma tutto il popolo dei Redenti, la Chiesa, perché in fondo sia ciò per cui è stata chiamata ad esistere.